Corso: Storia e tecnica della danza e del teatro (laurea triennale)
Inserisco di seguito alcune citazioni. Queste NON sostituiscono gli appunti presi a lezione individualmente dagli studenti frequentanti. Li integrano, consentendo agli studenti FREQUENTANTI di puntualizzare alcuni passaggi trattati a lezione.Alvin Ailey. Note introduttive[1].
di Rossella Mazzaglia
Joe Nash, storico della black dance, nel ricordare la data di nascita di Alvin Ailey, il 1931, sottolinea come questo stesso anno segni l’ingresso dei neri nel mondo della danza moderna, esemplificato dalla presenza di Katherine Dunham a Chicago e di Hesley Winfield a New York. In particolare, egli annota come prima di allora gli afro-americani fossero visti esclusivamente come entertainers dalle strabilianti capacità fisiche, ma privi di una filosofia propria, in altri termini di una cultura cui dar voce. (157) Il riferimento non è ovviamente alle forme popolari di canto, musica e ballo, ma al loro riconoscimento teatrale da parte di un mainstream culturale esclusivamente bianco. In realtà, se parlare genericamente di danza moderna significa trascurare la distinzione reale e implicita negli stessi presupposti dei coreografi afro-americani rispetto alle figure allora emergenti nella modern dance[2], è anche vero che il 1931 segna la manifestazione sul palco di una precisa volontà di costruire un genere di danza che rappresenti e dia dignità pubblica all’identità culturale della comunità afro-americana, allora detta “negra”.
Del 1931 è infatti il primo Negro Dance Recital americano, prodotto e con le coreografie di Hemsley Winfield ed Edna Guy. Questa iniziativa si pone in netta antitesi rispetto alla danza jazz e mira alla presentazione di una danza teatrale come arte, che conta, tra i suoi esponenti più conosciuti, la figura di Katherine Dunham[3]. Anche il lavoro di Alvin Ailey si colloca sulla scia di questa “negro dance”, danza negra, ma rappresenta al tempo stesso il passaggio ad un’epoca diversa dal punto di vista estetico e di apprezzamento pubblico e di critica.
Oltre che sul piano coreografico, la presenza fisica di corpi neri sulla scena dominante di danza (moderna tra gli anni ’30 e ’60 e ancor più in ambito ballettistico fino alla seconda parte del XX secolo) è estremamente esigua e le maggiori possibilità per interpreti afro-americani riguardano per lo più i Musicals, dove la loro interpretazione rispecchia piuttosto una visione stereotipata del “nero”, una proiezione primitivistica del pubblico e dell’elite culturale bianca che si reca a teatro.
La questione non concerne, però, solo la presenza fisica dei corpi, ma la costruzione sociale dell’identità nera rispetto all’identità dominante (e pertanto privilegiata) bianca. L’opera di Ailey va quindi letta sia alla luce degli sviluppi della modern dance, da cui attinge parte del suo eclettico linguaggio, e del paradigma culturale della comunità e della danza afro-americana a quel tempo ancora nominata “negro dance”. Se si è infatti soliti guardare alla storia della danza del XX secolo come ad una serie di rivolte da una generazione all’altra[4], le rotture che alimentano le diverse estetiche con cui nel tempo si sono espressi i coreografi afro-americani nascono, comunque, da un importante sostrato culturale, che – rispetto alla controparte ‘bianca’- mostra maggiori riconoscibilità di temi e continuità[5].
Alvin Ailey cresce nel Sud degli Stati Uniti, dove una carriera per un danzatore nero appare come un’impresa quasi inaudita, cui lui stesso all’inizio non crede veramente. Solo verso la fine degli anni ’40, dopo avere visto la compagnia della Dunham, cambierà idea, avviando al tempo stesso il suo percorso di danzatore e, presto, di coreografo.
L’ambiente sociale e il periodo storico in cui l’uomo Ailey si forma incidono profondamente sulla sua visione e pratica di danza. Ailey vive prima in Texas e poi California all’epoca della segregazione razziale. Sebbene l’apice del terrore del Ku Klux Klan[6] risalga alla metà degli anni 20, non si smorza la sua azione nel decennio successivo e storie di linciaggi e omicidi di neri nel sud del paese giungono alle orecchie anche dei più giovani. Laddove la violenza non è manifesta, la separazione ed il senso di inferiorità indotto sulla popolazione di colore è invece regola sociale. Nonostante infatti la legislazione americana vietasse forme di discriminazione, concretamente questa rappresentava la prassi, contro cui si sarebbero spinti i movimenti per i diritti civili a partire dalla metà degli anni 50, portando a dimensione di massa forme di resistenza e di ribellione culturale e politica fino ad allora poco visibili.
Segregazione significa dunque oppressione, esclusione e povertà, ma in molti casi, com’è nell’esempio di vita di Ailey, anche crescere all’interno di un universo culturale nettamente separato, senza contatti significativi, durante infanzia ed adolescenza, con la cultura bianca. Il capolavoro riconosciuto di Ailey, Revelations (1960) - innovatore rispetto alla precedente “danza negra” per l’ibridazione tecnica con gli stili di danza dominanti - affonda volutamente le sue radici proprio nella cultura degli afro-americani di cui si fa portavoce, celebrando la memoria di questi anni. La coreografia nasce dalla musica, da canzoni poetiche, di cui, spiega il coreografo, «il ritmo che viene fuori è ritmo nero. […] Le canzoni rappresentano anche l’unione di molte cose nella mia testa: dell’energia e dell’entusiasmo giovanili, della mia preoccupazione di proiettare appropriatamente l’immagine nera. Esse esprimono il mio legame affettivo alla terra del Texas; ri-creano la musica che sentivo dalle signore che in Texas vendevano mele mentre cantavano gli spirituals, memorie di canzoni che mia madre canticchiava per la casa e che io cantavo alle medie» (101).
Se la sua formazione di danzatore lo introduce alla danza teatrale bianca allora diffusa - dapprima con Lester Horton a Los Angeles, poi con i grandi nomi della danza moderna a New York[7] e con l’insegnante di tecnica classica Karel Shook - l’anima del lavoro di Ailey risiede dunque nella cultura nera, che sola gli consente di elaborare uno stile personale. In questo senso, la ricerca di una danza come fonte di espressione simbolica (che è facile fare risalire alla concezione di una danza come manifestazione di stati d’animo interiori, influenzata da Delsarte e condivisa tanto dalla prima quanto dalla seconda generazione della danza moderna americana, assorbita da Ailey già con le prime esperienze nella compagnia e nella scuola di Lester Horton) risiede anche nel movimento partecipato ed emozionale dei balli sociali e delle canzoni della comunità afro-americana, dagli spirituals al gospel al diffusissimo blues.
La sua intenzione di creare da sé e la mancanza di opportunità per danzatori neri nella New York della fine degli anni 50[8] lo spingono a formare un gruppo, anche se la stabilizzazione di una compagnia vera e propria tarderà ancora a venire per le limitate risorse economiche. Il gruppo è all’inizio composto di soli neri, ma presto subentrano - sebbene in numero esiguo - danzatori appartenenti ad altre culture. La volontà di affermazione di un’identità nera non passa, cioè, per Alvin Ailey, dalla separazione, ovvero non implica necessariamente l’esclusione dei bianchi. L’essere cresciuto come danzatore nella compagnia multirazziale del bianco Lester Horton, l’ha, in questo senso, formato ad una visione integrazionista, la stessa che nel 1963 Martin Luther King avrebbe espresso nel famoso discorso “I have a dream”, contrario a un panafricanismo o a un nazionalismo culturale[9]. Ciononostante, il protagonista della danza di Ailey è il corpo nero, di cui egli ammira il movimento e che merita dunque qualche possibilità in più di esibirsi, proprio per ovviare alle mancanze di opportunità cui prima si accennava. Questo corpo si fa portavoce di una cultura atavica, attingendo però da tutti gli elementi tecnici di danza a disposizione, all’interno di un repertorio di coreografie inedite per stile e messaggio.
Gli anni in cui si afferma Alvin Ailey sono gli stessi della svolta verso il formalismo e l’astrazione di Merce Cunningham e Alwin Nikolais, seguita dalla generazione di danzatori cosiddetti postmoderni, che hanno unito l’antipsicologismo di questi due padri con il rifiuto della tecnica di danza moderna. Eppure, la coreografia di Ailey conserva dei toni fortemente teatrali, nei costumi e nella caratterizzazione dei personaggi, mantiene un impianto narrativo e sfoggia un grande virtuosismo tecnico, seppure dato da un mélange di stili e generi e dalla capacità espressiva, in controtendenza dunque con l’avanguardia “bianca” del tempo.
Nel 1960, la prima di Revelations segna l’inizio dell’ascesa al riconoscimento pubblico, nazionale ed internazionale di Alvin Ailey. Ailey è giunto dal sud segregato da pochi anni e sente, in questo periodo, di dovere esprimere le “memorie di sangue” del suo passato, le sue radici nere, la sua identità culturale del sud. Lo fa dapprima con Blues Suite (1958) e poi con Revelations, una coreografia pertanto intima e personale, ma non solo.
Questioni sociali? Sì, m’interessa esprimere una presa di posizione sulla società perché sono un nero che è nato nella campagna, e la campagna era essenzialmente un luogo razzista. Così, Revelations è per certi versi una presa di posizione sulla società. La stessa idea di avere una compagnia costituita principalmente di danzatori neri è una presa di posizione sulla società. […] C’è anche una presa di posizione politica[10].
Le implicazioni estetiche e sociali di questa coreografia rispetto al tema del modernismo e al contesto più ampio della danza di quegli anni sono descritte dettagliatamente da Thomas DeFrantz[11].
Dal 1960 in poi, Revelations subisce continue revisioni fino ad attestarsi, nella sua forma definitiva, nel 1969. Tra gli elementi che cambiano, l’accompagnamento musicale, dapprima dal vivo, viene sostituito dalla registrazione degli spirituals. Anche la durata del pezzo, il numero dei danzatori e delle sezioni che costituiscono la coreografia mutano notevolmente, mentre permane il binomio tra astrazione modernista ed eredità culturale della comunità afro-americana. È, inoltre, comunque distinguibile una divisione tematica in tre parti: l’inizio nel dolore e nella prostrazione, quindi il rituale battesimale e, infine, l’esultazione riconducile alle cerimonie domenicali.
Susan Manning riassume in poche frasi il percorso di questa coreografia all’interno dell’ambiente di danza, rispetto al contesto della società e cultura americana nel tempo:
La prima di Revelations risale ad un momento in cui “danza moderna” e “danza negra” erano considerate delle categorie concettualmente distinte. La capacità di Ailey di stabilire un’interrelazione tra gli ideali di queste due pratiche colpì i suoi primi spettatori. Intorno al 1970, la “danza negra” lasciò il passo alla “danza nera”. Nel frattempo, la compagnia di Ailey si era istituzionalizzata come una delle principali compagnie statunitensi. Negli anni ’70 e ’80, Revelations simboleggiò le potenzialità della danza teatrale nera di teatralizzare l’estetica africanista. Dopo la morte di Ailey nel 1989, la “danza afro-americana” divenne d’uso comune, e i critici iniziarono ad accorgersi dell’ibridazione degli stili di movimento dispiegati in Revelations[12].
Annotazione terminologica
I diversi modi di nominare la danza afro-americana riflettono talvolta i diversi generi, ma sono anche, in alcuni casi, la conseguenza di un cambiamento nella società e negli studi di danza. Fino alla fine degli anni ’60 si parla di negro dance, danza negra, e solo in seguito ai movimenti sociali degli anni ’60, nella danza si propenderà per una denominazione degli sviluppi di quest’espressione artistica come black dance, danza nera, e black concert dance, danza teatrale nera. Successivamente, la diffusione di un linguaggio politically correct ha fatto sì che si diffondesse il termine oggi in uso di afro-americano. La successione cronologica di negro dance, black concert dance e African-American dance è solitamente considerata anche un indice del passaggio generazionale[13].
[1] I numeri tra parentesi all’interno del testo si riferiscono alle pagine dell’autobiografia Ailey Alvin, Revelations, A Birch Lane Dance Book, New York, 1995.
[2] Come Martha Graham e Doris Humphrey.
[3] Rappresentativa della fase precedente è, invece, per esempio Josephine Baker.
[4] Dalla prima generazione di danzatrici moderne (Duncan, St.Denis, Füller), alla seconda (soprattutto, Graham e Humphrey), all’avanguardia degli anni ’60 (in particolare, il Judson Dance Theater), che ha fatto parlare del passaggio dalla danza moderna alla danza post-moderna.
[5] Cfr. a tal proposito, Manning Susan, Modern Dance/Negro Dance, University of Minnesota Press, Minneapolis, 2004.
[6] Gruppo politico clandestino sviluppato soprattutto negli Stati Uniti del Sud dopo l’abolizione della schiavitù (1865) dedito al linciaggio della comunità afro-americana in nome della supremazia bianca.
[7] In particolare, studia sporadicamente con Hanya Holm, Anna Sokolow, Charles Weidman e con il New Dance Group.
[8] «Vero, Martha Graham usava danzatori neri –ricorda Ailey- in maniera incredibilmente creativa, ma a parte questo, la scena della danza teatrale newyorchese era fondamentalmente chiusa ai danzatori neri. Non c’era praticamente modo, per noi, di esaudire il desiderio impellente di partecipare pienamente al mondo della danza». (89)
[9] Come si accennava, anche gli esordi nella danza di Ailey, nel 1949, avvengono in un gruppo multiculturale, il Dance Theatre di Lester Horton a Los Angeles. Horton riprende danze americane, d’Asia e della diaspora africana, riunendole secondo un esotismo allora in voga. La sua coreografia è però comune al resto della danza moderna del tempo e di stampo narrativo. Alla morte di Horton, nel 1953, Ailey assume brevemente la direzione artistica della compagnia e il ruolo di coreografo, ma nel 1954 lascia Los Angeles per New York, dove si esibirà principalmente in Musicals e come attore, in ruoli però sempre stereotipati. Nel 1958, riunisce attorno a sé un gruppo di danzatori per il suo debutto newyorchese da coreografo alla 92nd Street Y. La prima di Revelations, sempre alla 92nd Street Y, è invece del 1960.
[11] Si rimanda dunque al suo articolo nelle pagine successive della dispensa.